Bab-al-Shams e Bil’in a Seregno

blog-palestina-seregnomodLa breve ma intensa esperienza di Bab-al-Shams, il villaggio insediato dagli attivisti palestinesi sulle proprie terre a est di Gerusalemme destinate dal governo di Israele a un gigantesco insediamento di coloni ebrei, ha risvegliato l’interesse per i Comitati di resistenza popolare che con la forza della non-violenza si oppongono alla violenza dell’occupazione israeliana della Palestina. A loro è stata dedicata la serata del 25 gennaio al Cinema Roma di Seregno, con una notevole partecipazione di pubblico.

Al centro della serata la proiezione del documentario “Five broken Cameras” (“Cinque videocamere rotte”) del palestinese Emad Burnat e dell’israeliano Guy Davidi, testimonianza in presa diretta sulla lotta dei Comitati Popolari di Bil’in contro il “muro”, presentato a Seregno come anteprima della nuova edizione del “Brianza Film Corto Festival” dall’Associazione B Movies, insieme al Coordinamento Comasco per la Pace e ad Assopace Palestina. A introdurre la situazione presente in Palestina Abdallah Abu Rahme, coordinatore dei Comitati Popolari per la Resistenza non violenta palestinese, originario di Bil’in, Luisa Morgantini, già vicepresidente del parlamento Europeo e portavoce di Assopace Palestina, e Ugo Giannangeli.

Gli interventi hanno puntato soprattutto a ricostruire la storia dei Comitati Popolari: una storia molto ricca ma poco nota, perché poco presente sui mezzi di comunicazione “tradizionali”. L’esperienza della resistenza non violenta si è allargata in questi anni da alcuni “pionieristici” villaggi, come Bil’in (l’unica comunità ad essere riuscita a strappare, dopo anni di proteste pacifiche costate anche alcune vittime, il riconoscimento dalla suprema Corte israeliana dei propri diritti contro il “muro”, che ha dovuto in quel territorio cambiare, per quanto di poco, il proprio tracciato), a molte altre realtà, fino alla recente esperienza di Bab-al-Shams. Qui, nei primi giorni di gennaio, un gruppo di qualche centinaio di attivisti palestinesi e internazionali ha eretto – nella zona E1, a est di Gerusalemme – un accampamento di tende, che si intendeva trasformare in un vero e proprio villaggio, per riaffermare nei fatti che quella è terra palestinese e che non può essere impunemente trasformata in un insediamento di coloni ebrei. L’accampamento è stata sgombrato con la forza dall’esercito israeliano dopo poche ore, in violazione persino di un pronunciamento della Corte israeliana che ne garantiva la permanenza per qualche giorno, ma ha dimostrato – come ha raccontato Abdallah Abu Rhame – che queste azioni possono rompere il muro di silenzio e richiamare l’attenzione della comunità internazionale, tanto occidentale quanto araba, su quanto sta avvenendo in Palestina. È proprio il ruolo fondamentale dell’opinione pubblica internazionale a sostegno delle rivendicazione dei diritti della Palestina che è stato più volte ribadito negli interventi.

Il film “Five broken Cameras”, già vincitore di alcuni premi internazionali e recentemente candidato all’Oscar come migliore documentario del 2012, è una narrazione in presa diretta della lotta di Bil’in contro il “muro” israeliano. Ha alla base le riprese del video maker “amatoriale” Emad Burnat, eseguite negli anni con diverse videocamere (le cinque del titolo, appunto) sia durante le proteste popolari che all’interno della famiglia (contraltare narrativo della lotta del villaggio è infatti la crescita dell’ultimo figlio di Emad, Gibreel). Grazie a un’innata capacità di “stare dentro gli avvenimenti” e a un accuratissimo lavoro di montaggio finale, il documentario è davvero capace di raccontare lo sviluppo della lotta di Bil’in, i tragici momenti di crisi (persino la morte di uno degli attivisti è condivisa in modo “naturale” sullo schermo, senza alcuna enfasi e senza compiacimento), i pochi momenti di gioia, i molti dubbi, l’intreccio tra vicende private e pubbliche.

Di fronte a un documento così evidente (del resto, l’ennesimo) delle violazioni dei diritti fondamentali di un popolo e delle singole persone, persino dello sconvolgimento di un territorio al di là di qualsiasi logica, foss’anche quella degli oppressori, riesce davvero difficile ammettere che la comunità internazionale non è tuttora capace di riportare in terra di Palestina un po’ di giustizia. [Fabio Cani, Ecoinformazioni]

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