25 novembre/ Donne in lotta per la libertà – liberazione

maninaÈ utile prendere atto delle responsabilità politiche che determinano le violazioni dei diritti umani delle donne in tempo di guerra e i soprusi del potere in tempo di pace. Per le Donne in nero, che manifesteranno il 25 novembre anche a Como, nell’ambito della giornata contro la violenza sulle donne, si sbaglia quando, parlando della violenza di genere, «si cerca di enfatizzare l’aspetto privato, relazionale (che non vuol dire solo domestico), confinando la violenza quasi esclusivamente all’interno del rapporto uomo-donna e perdendo per strada la rilevanza sociale e politica, connessa alla violazione dei diritti umani delle donne».

«Noi Donne in nero − che dal 1988 illuminiamo i percorsi delle donne che, con la forza della tenerezza e della nonviolenza, denunciano le violazioni dei diritti umani − desideriamo accompagnare la lotta di quante, qui in Italia e nel mondo, continuano a chiedere che la guerra sia messa fuori dalla nostra vita, il corpo delle donne sia il primo territorio di pace e di libertà, non sia mai più usato come “campo di battaglia” o “bottino di guerra” e stupro e violenza sessuale non siano mai più armi per l’affermazione del potere maschile sui nostri corpi e sulle nostre menti.

A questo dedicheremo la nostra presenza silenziosa, che si terrà nel corso dell’iniziativa “Donne in – Comune”, lunedì 25 novembre dalle 19 alle 19,30 a Como, nel Cortile vecchio del Municipio.

Le date rituali non ci interessano, come l’Anci e il Comune di Como, diciamo 365 giorni No alla violenza, ma siamo consapevoli che intorno ad alcune date c’è maggiore possibilità di ottenere visibilità e attenzione. Quest’anno, ci sono molte ragioni per prestare attenzione al prossimo 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una di queste è che stupri e violenze sessuali continuano a essere usati contro le donne che, nelle piazze e nelle strade del mondo, anche italiane, cercano di manifestare il proprio desiderio di libertà-liberazione.

Nel nostro paese, come in altri luoghi del mondo, della violenza di genere si cerca di enfatizzare l’aspetto privato, relazionale (che non vuol dire solo domestico), confinando la violenza quasi esclusivamente all’interno del rapporto uomo-donna e perdendo per strada la rilevanza sociale e politica, connessa alla violazione dei diritti umani delle donne.

Eppure di violazione dei diritti umani si tratta quando la violenza o la minaccia si perpetrano in una caserma di polizia o durante gli accertamenti di routine su una donna agli arresti domiciliari (condannati due poliziotti a Roma), o tenendo sotto minaccia di ritiro dei documenti 12 donne immigrate (condannati due poliziotti a Bologna), o palpeggiando una manifestante No Tav manganellata (denuncia a Torino di Marta Camposana), per arrivare al caso della recente sentenza di condanna della Cassazione a 12 anni e mezzo di uno dei poliziotti − già reo dei fatti gravi di Bolzaneto − per aver stuprato diverse donne in stato di fermo alla Questura di Genova. È stato condannato anche lo Stato italiano a risarcire il danno ad una delle donne stuprate, per aver consentito al poliziotto lo svolgimento di un pubblico servizio nonostante la condanna precedente.

È la Convenzione di Istanbul, ratificata a giugno 2013 dal Parlamento italiano a definire la violenza di genere «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».

La Convenzione è stata tradita dopo pochi mesi, dal Governo italiano, che ha proposto un decreto erroneamente definito sul femminicidio, poi convertito in legge.

La pomposità dei termini securitari (sicurezza, protezione, commissariamento) contenuti nel titolo del testo di legge “omnibus” − Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province − svela una forma sottile e strisciante di uso politico della violenza, la presunta tutela delle donne, per affermare un diritto forte sessuato al maschile, frutto della cultura patriarcale (impressiona molto negativamente che tante parlamentari donne abbiano votato la legge).

La legge, frutto del diritto emergenziale, si concentra prevalentemente sulla repressione penale del fenomeno, considerandolo, come la precedente legge sullo stalking (Decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11), un problema di ordine pubblico e di pubblica sicurezza. La legge inserisce «misure specifiche sulla violenza contro le donne, evocandole come vittime da tutelare», “soggetti deboli” «tanto da togliere [alle donne] anche il diritto di autodeterminazione nella possibilità di revocare la querela», “soggetti da mettere in sicurezza”, «in un quadro di provvedimenti che utilizza il corpo delle donne per intervenire sulla vita di tutte e di tutti, in un modo che nulla ha a che vedere con la politica, la libertà femminile, la giustizia», «in tempi in cui la violenza dilaga e la politica governativa si mostra inadeguata, diventandone addirittura strumento: da Lampedusa al DL anti-omofobia, a tutti gli interventi istituzionali ed economici». «Per questo e per tutto quello che si sta consumando sui nostri corpi, qui diciamo che tutto ciò non può essere fatto nel nome delle donne, di tutte e di ciascuna: “Non in nostro nome”» (Le parti tra virgolette sono tratte dall’appello lanciato dopo l’incontro di Paestum Libera ergo sum dell’ottobre 2013)». [Donne in nero Como]

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