Paolo Berizzi/ L’odissea di Sayed

Dall’Afghanistan all’Italia nascosto sui tir con la scritta ‘help’ sul braccialetto, l’odissea di Sayed, 14 anni: “Voglio trovare mio padre”.

A Seveso si è rivolto ai carabinieri mostrando il braccialetto. Ha viaggiato per un mese coprendo cinquemila chilometri.

Non la pagella come passaporto, solo un braccialetto rosso con la scritta bianca “help”. Quando alle due di notte, per farsi notare, si è messo ad agitare le braccia in aria, quella fascetta di gomma intorno al polso sottile si è come trasformata in un segnale di avvistamento. E subito dopo in una disperata richiesta di accoglienza. «Che fai qui?», gli hanno chiesto i carabinieri nel deserto di agosto intorno alla stazione ferroviaria di Seveso. Muto. «Con chi sei?». Muto. «Dove stai andando?». Muto.

All’inizio aveva solo una gran fame e sete, Sayed. Lo chiameremo così, per tutelarlo. Sayed, 14 anni e 30 giorni o forse più di viaggio disperato. Solo, con quel braccialetto e basta. Zero documenti, niente telefonino né bagaglio. Partito dall’Afghanistan un mese fa, per raggiungere — non si sa come, né dove, né quando — il padre in Germania. In mezzo, chissà cosa e con chi. «Mi sono nascosto su un camion», ha raccontato lui in lingua farsi, il persiano moderno. Per capirci qualcosa gli uomini e le donne dell’Arma che giovedì notte hanno soccorso Sayed mentre vagava a Seveso, in Brianza, su un marciapiede in via San Carlo, tra le macchine, nei pressi della stazione ferroviaria, si sono affidati al traduttore di Google. Difficile trovare un interprete, in questi giorni, a quell’ora. I militari l’hanno portato in caserma dove lo hanno ristorato: cibo, bevande, una doccia. Sayed era denutrito, spaesato. Un corpo mingherlino che si trascinava nella notte in un Comune di 23 mila abitanti che, fino a ieri, era noto solo per il disastro di Seveso (la fuoriuscita di una nube tossica dall’azienda Icmesa di Meda; per il Time fu l’ottavo peggiore disastro ambientale della storia).

Il mistero che avvolge la storia omerica di Sayed si dipana, almeno parzialmente, dopo due panini con il prosciutto, delle pizzette e un bicchiere di coca cola. Dai jeans logori che l’adolescente indossa insieme a una t shirt blu e un paio di scarpe da ginnastica spunta un biglietto del treno Trieste-Monza. Un treno che ferma, appunto, a Seveso. Dove Sayed è sceso prima di avventurarsi nel buio dell’ennesimo luogo a lui sconosciuto. Il ragazzino riferirà di essere salito sul treno dopo avere lasciato l’ultimo tir. L’ultimo, si presume, di una catena di passaggi che dalla sua terra natale, l’Afghanistan, lo hanno portato — forse senza che nemmeno lui lo sapesse — in Italia. I magistrati per i minori di Milano, insieme ai servizi sociali, stanno cercando di ricostruire l’incredibile viaggio.

Ora. Se Sayed proveniva da Trieste è plausibile ipotizzare che dall’Afghanistan abbia attraversato l’Iran, la Turchia, la Grecia, e da lì, seguendo la rotta balcanica, abbia continuato passando da Albania, Montenegro, Bosnia, Croazia, Slovenia; fino appunto al confine con l’Italia e al capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Dove la catena dei camion-taxi si è fermata. E la rotta è proseguita sui binari. Ai carabinieri pare che il ragazzino abbia parlato solo di Turchia e di Grecia. Una traccia da collocare, come minimo, nel contesto. L’età. Il viaggio disperato e dunque lo svuotamento della cognizione spazio-tempo. La stanchezza. Il senso di smarrimento.

Una cosa è certa: Sayed, a 14 anni, ha “vagato senza casa” — per dirla con le recenti parole del presidente Sergio Mattarella sull’immigrazione — per un tempo che deve essergli sembrato infinito, sfinente. Attraversando forse otto Paesi, e affidando il suo destino a quali e a quante persone, e a che prezzo, non è dato sapere. Gli uomini della pattuglia che copriva il turno mezzanotte-6 del mattino se lo sono trovati di fronte così, uno scricciolo che spunta dall’oscurità. Sono riusciti a risalire alla sua identità grazie all’esame delle impronte digitali. «Sono scappato dall’Afghanistan, volevo raggiungere mio papà», ha ripetuto. Scappato dalla fame, dalla disperazione, da un ambiente e da difficoltà inimmaginabili. Le ore trascorse in caserma sono state l’approdo imprevisto di Sayed. Una casa temporanea dove qualcuno si è preso cura di lui e della sua dignità, e lo ha abbracciato.

«Ci ha ringraziati con un sorriso», raccontano i militari di stanza a Seveso. Quando? A mezzogiorno di venerdì. Dopo un profondo sonno in un alloggio dell’Arma, dalla Brianza Sayed è stato accompagnato in una comunità parrocchiale nel comasco. È la struttura dove si occuperanno di lui (le procedure formali in questi casi, trattandosi di minori soli, sono relativamente rapide), almeno per il momento. Como, una città e una provincia dove di profughi e migranti in transito ce ne sono, da anni, molti. E molti vengono accolti. Grazie a una rete di volontariato che unisce laici e cattolici. Da Como Senza Frontiere alla Caritas passando dall’impegno, tra gli altri, di don Giusto Della Valle. «Abbiamo due ragazzi afghani» racconta il sacerdote che si dedica da anni ad accogliere stranieri in difficoltà nel suo oratorio di San Martino di Rebbio.

Sayed non è nella sua comunità e in fondo, in questa storia, ciò che è meno importante è sapere dove sta adesso questo ragazzino. Medici, assistenti sociali e volontari si prenderanno cura di lui. Si cercherà di capire, anzitutto, in quale città della Germania vive il padre, ed eventualmente se e come sia possibile combinare un incontro. Per legge la responsabilità sui minori stranieri non accompagnati che si trovano su un territorio è del Comune di competenza: e quindi Seveso. Per adesso quel che conta è che l’Italia abbia risposto all’“help” scritto su un braccialetto. [Paolo Berizzi, La Repubblica, 27 agosto]

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