Guerra in Libia/ Forse non è tardi

Pierluigi Sullo, giornalista de Il manifesto, direttore di Carta e da sempre impegnato nella libera informazione contro la guerra, interviene nel dibattito sulla guerra in Libia: «Premetto che sono contro la guerra, in ogni forma e ovunque. Lo sono da molto tempo. Nel 1991 lavoravo al manifesto e pagammo un certo prezzo per esserci opposti in modo intransigente, di principio (come diceva Luigi Pintor), alla prima guerra del Golfo. In quei giorni l’Asahi Shimbun, il più diffuso quotidiano giapponese, disse che in Italia si era creata una strana coppia: contro la guerra erano solo il quotidiano comunista e il papa (era l’altro papa, non questo). Nel 2003 – facevamo ormai Carta – fummo tra i promotori della manifestazione del 15 febbraio, quella dei tre milioni, contro la seconda guerra in Iraq. «Senza se e senza ma», come si diceva a quel tempo.

Bene, presentate le credenziali, mi permetterò di tentare un ragionamento sulla vicenda libica. Sento in questi giorni una scomodità mentale, nel leggere comunicati su comunicati (l’Associazione per la pace ed Emergency, l’Arci e i Cobas, ecc.: alcuni di questi testi sono nel sito) che ribadiscono «siamo contro la guerra, comunque», dopo di che semplicemente omettono di rispondere alla domanda «sì, ma la gente di Bengasi che stava per essere uccisa, e in generale i ribelli libici, che destino immaginiamo o desideriamo per loro?». Qualcuno non omette la circostanza, ma la cita come pretesto o menzogna dei paesi che hanno iniziato i bombardamenti e, spesso, aggiungono dubbi sull’identità dei ribelli e sui loro moventi: sono le tribù da sempre nemiche di Gheddafi, sono tendenzialmente separatisti, sono troppo legati a Sarkozy… Ma in questo modo si omette la questione che dovrebbe – per chi è contro la guerra – essere la principale, dato che si tratta di salvare degli esseri umani da un oppressore omicida (cosa che nessuno nega), o peggio: insinuando dubbi o infamando i ribelli si tradisce esattamente il senso dell’essere «senza se e senza ma» contro la guerra». [Pierluigi Sullo da http://www.democraziakmzero.org]

Già, perché «ripudiare la guerra», per citare la Costituzione, non è una maniera astratta di tutelare la propria coscienza, dopo di che succeda quel che purtroppo deve succedere, ma è l’indicazione dell’unica politica ragionevole e praticabile, dato che sparare non è né ragionevole né utile, oltre ad essere inumano. Dunque, si tratterebbe di chiedersi che cosa, sulla base di quella premessa, si potrebbe fare di meglio e di diverso da quel che i caccia i sottomarini «alleati» stanno facendo.

Sarebbe meglio dire: si sarebbe trattato di chiedersi. Al passato. Un paio di settimane fa, angosciato dall’indifferenza di pacifisti, movimenti e sinistre nei confronti della ribellione libica, che Gheddafi stava inesorabilmente spingendo sul piano inclinato dello scontro armato, quello in cui era certo di vincere, mandai in tutte le liste cui sono iscritto, e pubblicai nel nostro sito, un testo per dire che a mia impressione i ritardi e le nostalgie per un Gheddafi anti-imperialista del passato erano solo un modo per assistere inerti al sempre più probabile massacro (che almeno in parte era già avvenuto). Io conto meno di nulla e – temo – anche le sinistre e i movimenti italiani contano in generale ben poco. Ma allora a chiedere la «no fly zone» era solo la Francia, i governi europei sembravano più che altro in attesa che la tempesta passasse per ricominciare i loro affari (petrolio, detenzione di migranti, finanza, vendita di armi) con Gheddafi. Si può immaginare che se in quel momento, anzi già dall’inizio della rivolta, una opinione pubblica robusta avesse imposto ai governi di aiutare la rivoluzione, magari anche solo con derrate e farmaci, con un riconoscimento pieno (e non il rapporto quasi privato tra Sarkozy e il Consiglio di Bengasi), si fosse fatta la voce grossa con Gheddafi tagliandogli i finanziamenti con cui ha continuato a comprare mercenari, insomma si fosse fatto tutto quel che pacificamente ma fermamente si poteva fare, forse le cose sarebbero andate diversamente.

Del resto, all’epoca della prima guerra in Iraq, proprio questo era quel che il movimento globale per la pace sosteneva ragionevolmente: che si poteva costringere Saddam a ritirarsi dal Kuwait senza sparare un colpo, con le sanzioni, l’isolamento internazionale, la fine delle forniture di armi, e così via. Allora ne eravamo molto convinti. Perché oggi nessuno ha fatto nulla?

C’è stato un momento in cui – per ragioni che sarebbe interessante indagare – il calore, l’entusiasmo, o comunque la curiosità positiva che le rivoluzioni tunisina ed egiziana avevano suscitato, si è di colpo raffreddato di fronte alla rivolta libica. Si sono cominciate a fare distinzioni, o si è cambiato registro senza nemmeno spiegarlo e spiegarselo. Perché? Sarebbe un discorso complicato. L’essenziale è che in questo modo ci si è impedito di vedere come la «primavera araba» sia nata contemporaneamente, dal Marocco agli emirati del Golfo, più o meno per le stesse ragioni. Non è un’opinione, è un fatto. Poi, certo, «più o meno»: questi paesi, benché accomunati da moltissimi fattori, sono anche diversi. Nel Bahrein è la maggioranza sciita a protestare contro la minoranza sannita che detiene da sempre il potere. Nello Yemen c’è un dittatore grosso modo simile a Mubarak, però si tratta di un paese molto più piccolo e molto più povero. In Marocco la monarchia tenta la carta di una riforma costituzionale. Eccetera.

Ma se ci si concentra sulle differenze si perde di vista l’insieme. E nonostante vi sia chi – pochi – cerchi di individuare le cause dell’esplosione araba (il prezzo del cibo e la disoccupazione, il numero dei giovani e forse una evoluzione dell’Islam in senso laico, l’insopportabilità di dittature ultradecennali e il desiderio di una società più aperta…), c’è sempre qualcosa di profondo che ci sfugge. Perché noi, europei, quelle società non le conosciamo quasi per nulla, fermi com’eravamo allo schema fondamentalismo-contro-dittature (travestite da democrazie, quasi sempre, con tanto di elezioni). Perciò nessuno, ma proprio nessuno, ha saputo prevedere quel che sarebbe accaduto a Tunisi e a Sanaa, a Casablanca e ora a Damasco, e perfino a Baghdad. Nessuno. Il che significa che non solo i governi e i potentati economici guardavano ai paesi arabi con gli occhiali ciechi dell’interesse a breve termine, ma che anche movimenti sociali, pacifisti, sinistre sono stati incapaci di avvertire il fremito che annuncia la tempesta.

Cosa voglio dire, con questo? Che presumibilmente la chiave di volta sta nel cercare di capire, nel parlare con i ribelli di ogni paese, nello stabilire legami di amicizia e solidarietà (per lo meno come quelli che esistono con i movimenti sociali e indigeni dell’America latina), nel concertare strategie comuni per il Mediterraneo e il Medio Oriente (dove resta la piaga palestinese, beninteso).

Già, ma adesso c’è la guerra. Ha ragione chi dice (per esempio Emergency, ma è un coro) che si tratterebbe di pretendere un cessate il fuoco immediato, in Libia, proprio come chiede la Risoluzione 1973 e come annuncia, più o meno una volta al giorno, Gheddafi. Il margine esiste. La coalizione occidentale sta già litigando: su chi deve comandare, su quali siano gli obiettivi finali dell’azione, quali i bersagli, quale la durata. La Lega araba, che pure aveva chiesto la «no fly zone» per fermare il massacro, ora protesta perché ognuno dei «volonterosi» interpreta il mandato a modo suo, e spara dove gli pare. Le forze di Gheddafi sembrano effettivamente indebolite. I ribelli potrebbero conquistare una loro stabilità, almeno in una parte del paese. Forse non è tardi. A patto che usciamo dalle dichiarazioni di principio e dagli anatemi autoconsolatori contro «gli imperialisti», riconosciamo ai ribelli libici la dignità che hanno, e che non è stata negata da nessuno, mai, agli yemeniti o ai tunisini, e li aiutiamo a ricostruire il loro paese fin da ora, dove e come possono, contando sul fatto che prima o poi Gheddafi dovrà mollare la preda, ossia la Libia.

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