Migranti non fantasmi

Lasciare la propria casa non è mai facile. Dietro allo spostamento di milioni di persone ci sono motivi che ignoriamo. O che non riusciamo ancora a capire. La povertà in Nigeria, il terrorismo in Mali, le guerre che lacerano il paese nel Sudan. E ancora, i “migranti invisibili” che arrivano dalla Tunisia e la repressione in Afghanistan. A questi vanno aggiunti milioni di apolidi, cioè persone cui sono stati negati nazionalità e accesso a diritti fondamentali, come istruzione, salute, lavoro, libertà di movimento. In questi casi una canzone riesce a trasmettere più di quanto possa fare un articolo di giornale o un servizio in televisione.

Partire significa andare alla ricerca, di una nuova vita, di un futuro migliore, e dare un senso a ciò che ognuno di noi è. Partire significa abbandonare i propri cari, gli amici, la casa, e non guardarsi indietro. Può essere una scelta o un obbligo, una partenza o una fuga, mettersi in viaggio con speranza e curiosità, oppure per sopravvivenza. Quando inizia il cammino, nessuno sa dove porteranno quei passi, trascurando i pericoli e le difficoltà che si incontreranno lungo la strada e ignorando la possibilità che possano non finire mai.

Mi ricordo il rumore del vento
Che muoveva la plastica del mio giubbotto
E lo sporco di olio e di merda nel pavimento là sotto

Mi ricordo, pensavo “Finisce, tra poco è finita
Poi sarà solo un racconto
Una storia da dire di sera”

Sono parole che accompagnano l’esperienza di chi scappa da una situazione di disperazione, un viaggio invaso da sofferenza, incontri sbagliati, angoscia. I migranti sub sahariani devono attraversare il deserto del Sahara, un’ampia steppa che collega l’Africa sahariana ai Paesi del Maghreb. Sono chilometri di un deserto colmo di pericoli: sembra che l’unico modo per proseguire il cammino sia affidarsi a organizzazioni criminali che gestiscono il passaggio da un confine all’altro. Le rotte verso l’Italia sono varie: una di queste è quella che parte da Dakar (capitale del Senegal), attraversa il Niger, seguendo l’antico tragitto carovaniero che passa per Agadez, Dirkou e Madama, fino alla Libia, e proseguire a Lampedusa. “Ad ogni città di transito i passeggeri vengono derubati e spesso picchiati violentemente dalle forze armate per estorcergli denaro: oltre al costo del viaggio già enorme, si aggiungono, le c.d. pesanti tangenti” (Bilal, Fabrizio Gatti).

Mi ricordo lo stomaco a pezzi e i capelli salati
Le grida feroci, le spinte
Gli sguardi terrorizzati

Mi chiamo Kalima, sono nata in un piccolo paese a 5 chilometri da Dakar. Avevo 9 anni, quando mia madre mi ha portata a vivere nella casa di mio padre, insieme alle sue 2 mogli e i miei fratelli, e ne avevo 17 quando mia nonna e mio padre mi hanno promessa in sposa ad un uomo di 60 anni che aveva già 4 mogli. In quel momento mi resi conto che non potevo essere io a scegliere come e con chi avrei vissuto, la persona giusta o quella sbagliata, quella che sarebbe stata al mio fianco, a cui avrei dedicato amore, tempo ed energie. Avevo 17 anni quando sono stata costretta, per volere di mia nonna e con il consenso di mio padre, a subire l’infibulazione1, con modalità rudimentali, e con una violenta cerimonia alla quale avevo provato ad opporre resistenza, inutilmente.

Dopo 3 anni ho deciso di fuggire. Mi sono rifugiata a Dakar, ospite di mia cugina, Siré. Insieme siamo partite per la Libia. Attraversiamo il Mali e il Niger trasportate da un fuoristrada pick-up con una trentina di altre persone che, come noi, volevano attraversare il deserto libico.

Mi ricordo la lingua incendiata
Il cartoccio dei soldi bagnati
Mi ricordo il deserto di notte
L’assurdo spettacolo di un cielo muto
E qualcuno che è stato fratello strappato alla vita
E neanche un saluto
Mi ricordo di quando il futuro è passato.

La Libia, un luogo dove attività illegali come il traffico di esseri umani prosperano, esponendo uomini, donne, bambini e bambine a violenze, sfruttamento di vario genere, schiavitù ed estorsione. Un luogo dove si subiscono torture e altri tipi di abusi come violenze sessuali e stupri, si viene imprigionati e arbitrariamente privati della libertà, un luogo dove si muore.

Le vetrine di Zara e Foot Locker
Ancora più lucide e piene di roba
E kebab e gli hotel extralusso e McDonald
E gli anfibi puliti e i soldati col mitra
E fari di notte e il mare in salita
Il mare in salita, il mare in salita
E le chiazze di vomito multicolore
La faccia di chi ti sta contro
E le macchine in fila che pompano trap.

 «Ho deciso di partire perché ero rimasta sola con i miei figli. Mio marito è prima finito in prigione, poi l’hanno ucciso. Era un giornalista in Eritrea.» (Salimah, 29 anni, Eritrea)

«Ci hanno portato in un posto isolato, una stalla, e trattenuto lì per un mese. C’erano altre donne nigeriane. Non avevamo il permesso di uscire e gli uomini che erano lì per controllarci ci hanno violentato molte volte.» (Aminah, 25 anni, Nigeria)

Lo sento il sospetto
Che come un specchio rifletto
La notte mi accendo
Mi rigiro sul letto
Le tag che circondano i bancomat
Con quella voce elettronica per le istruzioni
Che non dice mai niente dei miei genitori

«Sono partito dall’Eritrea, ho attraversato l’Etiopia e poi passando dal Sud Sudan sono arrivato in Libia dove ho passato un anno e sette mesi in un luogo chiuso e angusto, picchiato tutti i giorni dai ‘Gangsterman’, fino a quando mi hanno fatto chiamare mia madre, in Eritrea, per chiederle 11 mila dollari per il riscatto. Solo dopo aver pagato sono stato imbarcato e sono arrivato a Lampedusa.» (Abdi, 28 anni, Eritrea)

Affermativo affermativo
Qui ce n’è uno, vivo

«Sono arrivato in Libia attraverso il Sudan, e ci sono rimasto per due anni, rinchiuso in prigione, spostato di città in città, fino al viaggio e allo sbarco a Lampedusa.» (Zakaria, 24 anni, Asmara)

Mi ricordo il riflesso del Sahara
Dentro un paraurti cromato
Poi al largo le sirene impazzite
E un lenzuolo dorato che sembrava un DJ da lontano
Se non fosse stato per quell’espressione
Da campioni sconfitti in finale
A un torneo di pazzia generale

Il 19 ottobre 2018, una donna riporta al Mediterranean Hope la sua esperienza in Libia. Disegna su un foglio di carta le celle e le quattro porte blindate. Celle separate per uomini e donne. Racconta di come ogni sera le donne venivano prese e portate nella cella dopo la terza porta blindata. Quattro uomini ogni donna. Quattro miliziani libici per ogni prigioniera somala, o eritrea. E ogni sera venivano violentate e stuprate ripetutamente. Da quattro sconosciuti. Ogni sera. Per più di un anno. E quando una di loro rimaneva incinta veniva portata nello stesso posto e presa a calci. Fino all’aborto e oltre. Fino a quando il feto non veniva fuori dal corpo della donna. (Da Mediterranean Hope)

Veniamo inserite da due asma boys in una connection house2 a Sabratha. Gli asma boys (“asmar” in arabo significa “scuro”) non davano da mangiare a chi non pagava e tenevano tutti sotto la minaccia costante delle armi. Ricorderò per sempre quello che videro i miei occhi durante giornate che sembrava non finissero mai. Come i pianti disperati di quel bimbo nato in prigione, mentre i miliziani libici stavano uccidendo sua madre perché si lamentava delle doglie del parto. I carcerieri ci picchiavano con una tale brutalità, a volte fino a quando non avevano più la forza di farlo. Dentro la prigione non potevamo parlare, a volte neanche muovere le labbra senza pronunciare parole. Di giorno ci picchiavano e di notte venivano a violentarci. Non eravamo più persone. Non eravamo niente ai loro occhi. Ci davano scariche elettriche dopo averci violentato, ci bruciavano lasciandoci scottature tremende.

Immerso nella nuvola
Di vita e di morte delle persone
Dentro la propria sorte
Affermativo e unico anche se nel marasma
Esisto, sono qui, non sono un fantasma

Secondo le stime dell’organizzazione nazionale per le migrazioni (Oim) circa l’80% delle donne nigeriane arrivate in Italia nel 2016 sono state vittime di tratta per lo sfruttamento sessuale nel nostro paese o in altri paesi europei, e di violenze e stupri nei campi di raccolta in Libia e durante l’attraversamento del Mediterraneo. Molte donne rimangono nel loro paese (ancora) non perché non siano vittime di violenze ma perché non hanno alternative. Responsabilità dei figli, scarsa disponibilità economica o restrizioni per il viaggio, sono catene che le costringono a rimanere nella casa natia.

Il filo che lega migrazione e criminalità è piuttosto sottile. Ignoranza e assoluta certezza di false credenze (spesso infondate) sono sempre più diffuse. Quando si sceglie invece la via dello studio e dell’approfondimento, opinioni che parevano certe iniziano ad oscillare, verità indiscusse diventano occasione di confronto e l’odio, il rancore e la paura sfumano fino a scomparire. Uno studio dell’Istituto nazionale di statistica ha osservato che l’Italia ha visto un inserimento progressivo degli stranieri nell’area criminale e che una considerevole quota di immigrati (provenienti per lo più dai Paesi extracomunitari) non trovando quelle opportunità di inserimento sperate, ha finito per entrare in condizioni di manovalanza criminale a basso costo.

Il trafficante ci ha imposto di pagare 5.500 dollari per uscire dal carcere e imbarcarci per l’Europa. Grazie all’aiuto dei genitori di Siré paghiamo la somma, e partiamo per la spiaggia di Al Khoms, una cittadina costiera a est di Tripoli da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia. Ci siamo imbarcate di notte, insieme a un gruppo di 5 uomini, una donna incinta e tre bambini, su una barca di legno, abbiamo navigato due giorni e due notti senza vedere nemmeno una barca. I trafficanti ci hanno dato una bussola e indicato la direzione. Era appena spuntato il sole quando due motovedette italiane ci hanno soccorso.

Voglio le strade illuminate per me
Tutte le strade illuminate per me
Che ho vissuto due vite
Domani farò diciotto anni
Tutte le strade illuminate per me
Voglio le strade illuminate per me
Tutte le strade illuminate per me
Che ho vissuto due vite
Domani farò diciotto anni
Voglio le strade illuminate per me

Non riesco a credere di aver raggiunto la terraferma, trasportata da quella barca di legno traballante, faceva molto freddo e le onde mi facevano venire la nausea. Il freddo era insopportabile, così un ragazzo ivoriano, seduto di fianco a me, mi ha dato la sua giacca. A Palermo, veniamo immediatamente trasferite in un centro di accoglienza, la commissione territoriale nega a entrambe la protezione umanitaria, ma grazie all’aiuto di un avvocato facciamo ricorso al tribunale di Foggia. L’ha accolto, riconoscendoci lo status di rifugiate.

Kaima, come tante altre donne migranti, ha vissuto momenti difficili, ma dopo una lunga strada percorsa nel buio, in fondo al tunnel lo spiraglio di luce è sempre lì, che aspetta.
Così è accaduto a Ousman Fanneh. Ha origini gambiane ed è arrivato in Italia nel maggio 2014 su un barcone, in fuga dal suo paese in quanto perseguitato politico. Sin da subito è entrato nelle file della Caritas come mediatore linguistico per i tanti gambiani che come lui stavano arrivando in Italia. «L’Italia è il Paese che mi ha accolto e io voglio lavorare qui e costruirmi una vita qui» – disse all’epoca, ed è proprio quello che ha fatto.  Ousman si laurea in Lingue e Culture dell’Asia e dell’Africa, all’Università degli Studi di Torino (dove studia arabo e spagnolo) e trova lavoro in una società di mediazione linguistica. Il dott. Ousman Fanneh potrebbe anche dire di avercela fatta.

Affermativo e unico
Anche se nel marasma
Esisto, sono qui, non sono un fantasma.

[Mara Cacciatori, ecoinformazioni]

1La circoncisione, l’escissione, l’infibulazione sono forme di manipolazione dei genitali femminili che risalgono a oltre 3.000 anni fa, quando nell’antico Egitto venivano praticati riti di fertilità in cui le parti rimosse erano offerte al sacro Nilo. Oggi, mentre molti governi e organizzazioni internazionali la considerano una violazione dei diritti umani e una minaccia per la salute della donna, questa pratica persiste a causa della credenza che essa sia parte della fede religiosa o che comunque possa proteggere la verginità di una ragazza, purificarla o perfino provocare la morte del neonato.

2Le connection house sono i luoghi di raccolta dei migranti e profughi che tentano di raggiungere l’Europa, dunque centri di accoglienza; di fatto sono quasi sempre strutture gestite dai trafficanti, in condizioni di sfruttamento e schiavitù, dove le donne sono costrette alla prostituzione.

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