
Lettera aperta su un Istituto e una storia
Anticipiamo dal numero 509 del settimanale ecoinformazioni la Lettera aperta su un Istituto e una storia di Fabio Cani.
La mia posizione di condirettore di ecoinformazioni e di vicedirettore dell’Istituto di Storia Contemporanea mi suggerisce di provare a mettere in evidenza alcune questioni sollevate in questi ultimi giorni a proposito della sopravvivenza dell’Istituto stesso (e qualche altra questione di contorno, non proprio di dettaglio)
1. Questioni di merito e di metodo
Il merito è chiaro: c’è un istituto che si occupa di storia, di ricerca e di didattica e che, nonostante il lavoro volontario di alcune persone, ha talmente poche risorse da rischiare di dover chiudere; le spese pur ridotte al minimo ormai superano le entrate. A fronte di questa situazione, eleva un grido d’allarme: il rischio di chiusura è reale; tenere aperta una sede, con 30 mila volumi, migliaia di documenti e di fotografie, non è questione di buona volontà; il riscaldamento, l’illuminazione, la manutenzione hanno costi che non possono essere compressi oltre un certo limite. La questione di metodo è più complessa: come si può risolvere una simile situazione? E poi: ne vale la pena? Alla città e al territorio serve davvero un Istituto di Storia? Il grido di allarme si alza con tutte le cautele del caso. Da mesi si va ripetendo che la situazione è grave, e chi ha orecchie per intendere avrebbe dovuto intendere, ma ha preferito far finta di non aver sentito. E quindi serviva un piccolo gesto capace di guadagnare un po’ di attenzione. È un grido non proprio strozzato. Magari qualche orecchio in più potrebbe intendere.
2. Pro e contro L’appello non è “contro” qualcuno. Chi l’ha inteso in questo modo ha la coda di paglia. La crisi dell’Istituto si inserisce in un più vasto contesto, che vede molte associazioni culturali in pesante sofferenza quando non addirittura in stato di coma irreversibile. In un momento così problematico, anche la più minuta distrazione, il più piccolo ritardo rischiano di essere fatali. È piuttosto un appello “pro” qualcosa: a favore di un modello di ricerca mai paludato di accademismo, di una disponibilità alla più ampia collaborazione, di una continua sperimentazione di relazioni con studenti e docenti, con istituzioni e associazioni, con singoli e gruppi… a favore anche di un riconoscimento dei propri (molti) errori e di un lavoro per superarli. In tutti questi anni, e anche in questi ultimi mesi nonostante tutti i problemi, l’Istituto ha svolto una mole di lavoro considerevole, a contatto soprattutto con il mondo delle scuole (docenti e studenti) e collaborando con tutte le realtà disponibili, comprese le istituzioni. Quindi, non c’è stata nessuna intenzione di gettare la croce addosso ad altri. Piuttosto di rendere noto che se l’Istituto riveste ancora un qualche interesse per la città e il territorio – per chi la amministra e per chi, più semplicemente, la vive -, è arrivato il momento di farsi avanti. Se l’appello è “contro” qualcosa, è contro l’indifferenza, il disinteresse, l’omologazione. Però… Però non è che proprio tutti possono chiamarsi fuori da questa situazione. Non possono farlo le amministrazioni (anche quelle più recenti) che non hanno avuto cuore e coraggio di dare risposte o, più banalmente, di dare quel piccolo sostegno materiale che sarebbe servito. Non può farlo la cittadinanza che non ha saputo comprendere le opportunità che una simile realtà (attiva da quasi quarant’anni) può offrire. E non può farlo nemmeno, paradossalmente, quel pubblico che ha partecipato a molte iniziative dell’Istituto ma troppo raramente ha raccolto l’invito a farsi coinvolgere, a contribuire alla sua vita. In apertura di un corso d’aggiornamento sulla prima guerra mondiale (piuttosto frequentato), mi è capitato di fare appello a diventare soci dell’Istituto non per acquisire un diritto a fruire di alcuni servizi, ma per acquisire un dovere a partecipare. L’appello non ha sortito grande effetto: evidentemente non sono stato molto convincente.
3. La nicchia e la platea
Nell’appello sul rischio di chiusura dell’Istituto, ha fatto un certo scalpore il mio riferimento alla vicenda della discussione su Como capitale della cultura e all’esclusione dell’Istituto in nome di una concezione “pop” della cultura medesima… È evidente che quel riferimento, per quanto assolutamente autentico (ma non l’ho mai riferito all’assessore, che non avrebbe mai usato un’espressione così colorita), è poco più di una battuta, ma ben esemplificativa di un atteggiamento ampiamente praticato. Infatti, lo stesso assessore, nel negare qualsiasi adesione al concetto di “pop”, ha chiarito che i criteri di inclusioni/esclusione si sono basati sulla valutazione di ampie prospettive e ampie partecipazioni. Tradotto dal cultural-burocratese stretto è esattamente quello che ho detto io… (E vorrei ricordare che se questo fosse un criterio universalmente valido, allora le mostre dell’assessorato alla Cultura avrebbero ben poche chances di superare l’esame). Il successo o l’appeal sono importanti, ma non possono essere il criterio unico e assoluto di valutazione delle iniziative culturali, e soprattutto non possono essere applicati in modo meccanico a situazioni estremamente diversificate. In maniera ancora più esplicita: non può essere solo il mercato a dettare le regole. C’è sicuramente un’economia della cultura, ma la cultura non è solo economia. La storia, la ricerca, persino la didattica da qualche tempo, sono questioni di “nicchia”. Che è cosa ben diversa dalla “platea”. La differenza non è solo quantitativa (e su questo piano vince sicuramente la platea), è anche qualitativa (e qui il confronto appare più serrato). Certamente lavorare sulla storia, sulla memoria è complesso e faticoso, e sforzarsi di fare di questo lavoro oggetto di una comunicazione adeguata lo è ancora di più (la “divulgazione” è cosa ben diversa, anzi opposta, rispetto a inqualificabili operazioni commerciali di sfruttamento). Per di più vige una sorta di pregiudizio negativo che condanna preventivamente qualunque iniziativa culturale impegnativa all’insuccesso. Pur ribadendo che tale criterio di giudizio non è corretto (i lavori del consiglio comunale si giudicano in base alla quantità di pubblico presente?), resta da verificare che davvero ci sia sempre “poca gente”. Sono più significative due o tremila persone a un concerto techno, impegnate soprattutto a bere birra, o cento persone che seguono per quasi sette (!) ore approfondimenti sull’Europa e la Resistenza? Quale delle due iniziative – fatte le debite proporzioni – ha avuto più successo? Quante persone hanno partecipato alle lezioni e visite dell’Istituto? Se sommo tutte le ragazze e i ragazzi che hanno ascoltato Renzo Pigni e me davanti al Monumento alla Resistenza Europea, sarei quasi incline a crederci delle popstar (Renzo, ovviamente, di più, io non ho il phisique-du-role).
4. La cultura, la storia, la città, le persone
Torniamo quindi alla domanda di fondo: che ruolo c’è per la cultura, e per la storia in particolare, nella città e tra la gente? I segnali sono contraddittori. Da una parte cresce una richiesta di “narrazioni”, un’esigenza di ricostruire i percorsi che hanno condotto all’attualità… Lo si coglie da molte iniziative delle scuole e da alcune dei comuni del territorio; messa finalmente da parte la questione mal posta delle “radici”, si affronta la complessità del presente attraverso le molte cause che hanno concorso a determinarla. Dall’altra parte, però, viene avanti un sostanziale travisamento della narrazione storica come banalizzazione romanzesca, troppo spesso confusa con la divulgazione e altrettanto spesso al confine di tentazioni revisionistiche. Ne ha fatto le spese (per ragioni essenzialmente – e bassamente – politiche) soprattutto la lotta di liberazione, ma a ben guardare nessun periodo storico ne è andato esente (solo per restare in ambito locale, si possono verificare le fantasie senza capo né coda sul Medio Evo e il Romanico, ma anche quelle – solo un poco meno sciagurate – sul Razionalismo e il regime fascista). Parecchi mesi fa, l’Istituto si è fatto promotore di una proposta di Casa della Memoria su cui ha ripetutamente e inutilmente cercato di coinvolgere le istituzioni (nonostante il fatto che esiste anche una legge regionale orientativa in questo senso). Risposte a questa proposta non ne sono venute; ancora recentemente, a fronte di una mia sollecitazione in questo senso, la risposta dell’assessore alla Cultura del Comune di Como è stata che la proposta non era sufficientemente strutturata (vero, ma era una proposta preliminare di un progetto da elaborare insieme) e che non aveva una “rete” formata da più realtà alle spalle (falso, alla proposta partecipavano praticamente tutte le associazioni interessate alle questioni storiche; persino la Società Archeologica aveva dato il suo assenso di massima, pur manifestando una certa distanza dall’epoca contemporanea). Se ne deduce che non è possibile avviare su questioni culturali un percorso di progettazione “condiviso” – come ormai si usa dire – con le istituzioni, e che l’unica opzione è quella di arrivare con un progetto preconfenzionato (e possibilmente già finanziato) e attendere un sì o un no. Sinceramente, pensavamo che una proposta come quella potesse essere motore di una serie di elaborazioni positive e feconde, per andare avanti, anche al di là del ruolo stesso dell’Istituto. È su questo crinale discriminante che si pone veramente la questione del “pop”. Il “pop” propriamente detto (e lo sa bene chi si occupa di musica) è cosa assai diversa dal “popular”, di cui costituisce la variante commercializzata, semplificata e banalizzante. In questo senso, sì, l’Istituto di Storia Contemporanea ha tutt’altra ambizione che quella di essere “pop”. L’ambizione, almeno a mio modo di vedere, è quella di essere “utile”, cioè di proporre modalità di “fare” cultura non meramente sovrapponibili alle altre. È su questo che si misura l’importanza di una realtà culturale, la sua fecondità nei confronti delle comunità a cui partecipa. Allora la domanda diventa: una realtà (un’associazione, un luogo, una biblioteca, un archivio, un gruppo…) come l’Istituto di Storia Contemporanea di Como può essere utile alla città e al territorio (e, ovviamente, alle persone che l’abitano)? Se sì, il problema delle sue risorse può e deve essere affrontato collettivamente (non solo dalle amministrazioni pubbliche, ma anche necessariamente con il loro concorso). Se no, diciamocelo: e allora non ci sarà ragione di lamentarsi se un giorno qualcuno troverà una porta chiusa. [Fabio Cani, ecoinformazioni]