Sorelle e fratelli per un Nuovo mondo

Più di duecento persone hanno seguito sulla piattaforma di streaming e sulla diretta fb il 15 gennaio l’incontro-dibattito online Laicamente sorelle e fratelli tutti. Una lettura dell’enciclica di Francesco. Mario Agostinelli (associazione Laudato si’), Raffaele Mantegazza (pedagogista, Università Milano Bicocca), Elisabetta Piccolotti (Equologica) hanno dialogato con Celeste Grossi (Arci),  Umberto Colombo (Cgil), Massimo Patrignani (Auser). L’iniziativa, inserita nell’ambito del Mese della Pace 2021, è stata organizzata da Arci, Auser e Cgil.

Dove stiamo andando? Non certo uno di quei quesiti a risposta multipla che lasciano indecisi fino all’ultimo tra la risposta A e la B. No, questa è una di quelle domande che richiedono più spazio e tempo di quello che è concesso dal test in cui compare. A volte bisogna pensare fuori dagli schemi del test e riconoscere che da certe risposte dipende la nostra vita non solo oggi, ma anche domani e nei giorni a venire. Ed è proprio intorno a questo interrogativo che venerdì, ispirati dalle parole dell’ultima enciclica di Papa Francesco, in molti e molte hanno ragionato fino a tarda serata. Un incontro partecipato, introdotto dalle parole di Celeste Grossi, coordinatrice Pace e diritti di Arci Lombardia, secondo cui una lettura laica di questa enciclica è necessaria proprio perché le sue parole sono indirizzate a tutte le persone di buona volontà che abbiano il coraggio di mettere in discussione lo status quo odierno in nome della difesa dei diritti umani e della sopravvivenza del nostro pianeta. Laicità in fondo, com’è stato ricordato nel corso della serata, non significa laicismo e disinteresse verso i contenuti del sacro e della religione: non è un caso che il Papa stesso citi, tra le figure da cui ha preso ispirazione, «anche altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri». Anche perché questa di Francesco è una lettera che, nell’opinione di Celeste Grossi – e credo di chiunque ne abbia affrontato con spirito critico la lettura – costituisce un testo squisitamente politico, capace di un linguaggio rivoluzionario: «Una riflessione insieme speranzosa e angosciata su quello che serve all’umanità oggi».

Tra le tante cose di cui il Papa sente l’esigenza, c’è sicuramente un ripensamento del lavoro. A proposito di questo si è espresso Mario Agostinelli, dell’associazione Laudato si’: «Il pontefice si è reso conto, a cinque anni dall’enciclica Laudato si’, che suo malgrado quel messaggio, il più rivoluzionario dell’ultimo decennio, non ha prodotto un cambiamento concreto di pratiche che dimostrino solidarietà, fratellanza e libertà.» In questo secolo, destrutturato dal liberismo, non riusciamo a superare il cambiamento di mentalità e a incanalarlo in uno stile di vita che costituisca una rottura con ciò che diamo per scontato. E questo vale soprattutto per il lavoro. Su questo tema Papa Francesco si chiede e ci chiede: il lavoro serve a produrre valore di scambio, atto ad arricchire, o valore d’uso, atto a migliorare le condizioni di uguaglianza sociale sulla terra? «Questo Papa capisce che l’eccessiva capacità trasformativa del lavoro finalizzata al massimo dei profitti distrugge la natura e la vita. Lo dice, perdonatemi il gioco di parole, papale papale» evidenzia Mario Agostinelli. Ma la denuncia, sacrosanta e mai scontata, non è fine a se stessa: il Papa propone, e fa proposte concrete, come la redistribuzione delle ricchezze e la riprogettazione del tempo, proprio a partire dall’orario di lavoro, uscendo dagli schemi entro cui siamo abituati a concepirlo. «Le politiche neoliberiste e di austerità, come si vede anche nel nostro territorio comasco, hanno ridotto i diritti e le dignità fondamentali delle persone, hanno fallito.» spiega Umberto Colombo, segretario generale della Cgil di Como, che vede nella lettera di Francesco molti punti di collegamento con l’azione dei sindacati, come per esempio la Carta dei diritti universali del lavoro stilata dalla Cgil, che, come le parole del Papa, propone una visione del lavoro non più assoggettato alle logiche di mercato e di profitto, ma concentrata sulla tutela della sicurezza e della salute. Una riflessione d’importanza capitale anche per il nostro territorio e che può essere portata avanti solo se chi riconosce questi valori si dimostra disposto a fare rete.

Il tempo, concepito in uno spettro più ampio di quello lavorativo, è un altro punto caldo di questa enciclica, su cui Raffaele Mantegazza, pedagogista dell’Università di Milano Bicocca, ha puntato l’attenzione in un intervento (non avvenuto in diretta, ma trasmesso in video nel corso dell’incontro, che ha comunque avuto un peso importante sulla discussione). Il Papa parla di coscienza storica, facendoci notare come in questa ipertrofia del presente ci siamo scordati di progettare il futuro ricordando il passato e ci siamo convinti che l’oggi sia un destino eterno e concluso in se stesso. Ma non è così: la società in cui viviamo deve essere il punto di partenza per un’autocritica finalizzata al miglioramento e alla trasformazione, non alla cristallizzazione di un oggi idealizzato, che preferisce nascondere ogni aspetto problematico, a costo della vita. Perché è proprio della vita che si parla, nell’enciclica e in discussioni, come quella emersa ieri sera, che abbiano il coraggio di trasformare queste idee in azioni concrete.  «Noi possiamo avere un progetto per il futuro solo se abbiamo una memoria del passato, anzi il ricordo ci serve per costruire quello che verrà. La storia veramente critica, politica e teologica parte dal passato per proiettarsi nel futuro». È proprio partendo da questa idea che dobbiamo farci promotori, come in molti e molte durante l’incontro dibattito hanno dichiarato, di una cultura della cura alternativa a quella dello scarto. Scartare, ovvero dimenticarsi di chi è debole e quindi non utile, non produttivo. Scartare significa girare lo sguardo, proprio come succede nella parabola del buon samaritano intorno a cui il testo dell’enciclica ruota.

Non è un caso che i soggetti più colpiti dalla pandemia siano stati proprio coloro che la società scarta: anziani, bambini, persone senza fissa dimora, poveri e migranti. Un processo di selezione, sottolinea Raffaele Mantegazza, non dissimile da quello che avveniva dietro le porte di Auschwitz dove a morire per primi erano gli inabili al lavoro. Il lavoro lì tendeva a trasformare chiunque in inabile, succhiando via ogni forza: è questo il tipo di lavoro che vogliamo per noi e per le generazioni a venire? «Così il capitalismo produce scarti e scarta gli inabili al lavoro» denuncia chiaramente Raffaele Mantegazza chiedendo che a questo paradigma si opponga una società della cura che abbia il coraggio di attuare scelte quotidiane, non solo nella vita privata, ma anche nell’amministrazione pubblica e locale. Basta saperlo fare con quella che Pablo Neruda avrebbe chiamato bontà indurita, ovvero non con remissività e sottomissione, ma con il coraggio di dimostrare a chi ci fa violenza che è lui quello debole e alla sua violenza opporre la forza e la dignità del rifiuto dei soprusi.

È proprio in vista di questa risposta allo scarto che Massimo Patrignani, presidente dell’Auser di Como, ha insistito nel ricordare ai giovani l’importanza dell’esperienza degli anziani: «se qualcuno vi consiglia di ignorare la storia, sappiate che questo è il modo più facile per farvi fare ciò che vuole, per mantenervi sradicati e vuoti, così che possiate fidarvi solo delle sue promesse.» E così di fatto si perpetrano quelle ideologie che distruggono tutto ciò che è diverso, tutto ciò che è stato, contro le quali bisogna armarsi della storia e della ricchezza spirituale umana che le generazioni da sempre provano a trasmettersi, come una fiaccola da non lasciar spegnare col soffio del tempo. Ecco perché le parole del Papa hanno una grande eco nel documento congressuale dell’Auser, dove viene rilanciato il concetto di arco della vita per indicare una cultura che veda l’invecchiamento come un processo in grado di (re)integrare la persona anziana nella sua storia completa di vita, rendendola protagonista dei cambiamenti possibili e necessari di cui tutti e tutte dobbiamo renderci partecipi.

Ma di giovani si è parlato ancora grazie all’intervento di Elisabetta Piccolotti, di Equologica, volto a sottolineare la natura intrinsecamente politica dell’enciclica. Le parole del Papa si rivelano politiche proprio lì dove lasciano emergere quell’idea di politica come di relazione che cambia le cose, con una critica fortissima alla maniera attuale di intendere quella che dovrebbe essere una delle arti più affascinanti dell’essere umano. Sono forti le parole con cui il Papa definisce la politica «una vocazione altissima, una delle forme più preziose della carità perché cerca un bene comune». Un’arte cioè che sappia crescere per sconfitte, oltre che per vittorie, che si faccia carico di essere testimone e mediatrice di conflitti. Non la politica anestetizzata, che si limita a enunciare il proprio punto di vista, ma una politica che cerchi verità, che difenda valori e principi, dando importanza a ogni vita e a ogni sofferenza. E i giovani in questo c’entrano perché, come sottolineato da Elisabetta Piccolotti, siamo stati abituati negli ultimi decenni a una narrazione politica costruita solo sull’opposizione tra vincenti e perdenti. Ma non è così e non deve essere così. «Nelle parole del Papa ho trovato che le sconfitte servono. I perdenti non sono inutili, fastidiosi e di peso, non devono essere delegittimati. Il Papa ci dice che bisogna fare le battaglie anche quando può capitare di perdere, perché non vengono per questo meno le ragioni per cui si è lottato: è un messaggio fondamentale per una generazione che fatica a rapportarsi con l’ombra che i media proiettano su qualsiasi posizione di rottura e cambiamento.» Parole forti queste, in giorni in cui sembra avere la meglio la visibilità, l’esigenza di far parlare di sé, di tirare avanti lo show, senza alcuna attenzione posta a un lavoro di costruzione di una società migliore. Il costruttore, l’ha detto benissimo Elisabetta Piccolotti interpretando le parole di Francesco, semina anche nell’ombra.

Molti sono stati gli interventi (Giusto della Valle, Grazia Villa, Matteo Mandressi, Nicola Vicini, Michele Marciano, Massimo Lozzi mentre Gianfranco Giudice e Giuseppe Calzati hanno affidato a un video pubblicato nel palinsesto del 15 gennaio dell’Arci Como web tv il proprio contributo) al termine di un dibattito che ha visto il coinvolgimento di tante persone, offrendo un terreno di confronto che esula dalle singole professioni di fede e che si rivolge piuttosto alla comune volontà di agire per la costruzione di un mondo migliore. Un mondo di cura e memoria, di speranza e tutela, un mondo che deve nascere però nell’oggi e nelle (piccole o grandi) azioni di tutte e tutti. [Martina Toppi, ecoinformazioni]

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