Faccia a faccia con l’Iran in rivolta

Nella serata di giovedì 2 marzo Arci Terra e libertà, nella nuova sede in via Brambilla 3, a Cantù, ha ospitato la prima iniziativa del calendario di Intrecciat3: Donna, Pace, Libertà. La forza delle donne in Iran. Ospite dell’incontro, in dialogo con Mariateresa Lietti, di Donne in nero, e Sara Sostini, di Arci ecoinformazioni, è stata Luna (nome di fantasia), ragazza iraniana fuggita in Italia.

La forza delle donne in Iran è stato un momento significativo per diverse ragioni: in primo luogo perché ha aperto il percorso comasco inerente l’8 marzo, una data importante per il transfemminismo a cui il percorso assembleare di Intrecciat3 con un calendario ricco di iniziative; poi, per il valore simbolico e politico che ha ospitare una donna proveniente dal paese che, insieme all’Afghanistan, negli ultimi mesi è stato emblema della violenza patriarcale sia a livello sociale in toto che, soprattutto, sui diritti e sui corpi delle donne.

La storia di Luna è la storia di una ragazza come tante, e in questo caso l’espressione non è retorica. Nata a Teheran da padre conservatore e madre capace di insegnarle a «fare tante domande» in una società che lascia poco spazio all’opinione, l’allora bambina iraniana cresce tra adeguamento alle norme impostele e una curiosità crescente per un sistema troppo contraddittorio per non lasciarla perplessa. Luna ammette candidamente di non essersi resa conto per molto tempo della realtà che la circondava, ed è solo con la frequenza dell’università che i suoi occhi di bambina «molto, forse troppo curiosa» si aprono definitivamente. L’Iran, nonostante le speranze che la rivoluzione khomeinista del 1978-1979 aveva scaturito, le si rivela come una società teocratica, patriarcale e, soprattutto, estremamente violenta soprattutto nei confronti delle donne.
Una storia come tante, si diceva, nell’inconsapevole serenità infantile rotta dalla partecipazione al movimento verde del 2009; da lì in poi, per le ragazze iraniane la vita come tante diventa una vita traumatica, di sofferenza ma anche di resistenza. Nel parlare del simbolo dell’opposizione alla polizia morale e al regime, Mahsa Amini, Luna si commuove perché si riconosce nella giovane colpevole di avere una ciocca fuori posto e per questo torturata e uccisa. L’arresto immotivato è all’ordine del giorno, così come la successiva detenzione, la violenza e la morte.
Anche Luna è stata arrestata, con modalità quasi identiche a quelle di Mahsa: «chiamavano “signorina! signorina!” e io non ho fatto nulla perché ero bardata, appena uscita per andare al lavoro, alle otto di mattina… Non ero certo una bellezza! E invece ce l’avevano con me. Essendo alta, dicevano, attiravo l’attenzione. Mi hanno caricata in auto, proprio come Mahsa, e ho sentito che citavano un posto, una specie di carcere, dove mandano i ragazzi arrestati alle feste, o le ragazze vestite “troppo colorate”… Comunque, un posto estremamente pericoloso, soprattutto se sei donna, ti violentano o peggio. Io sono finita lì». Uscita da questo carcere, non passa molto e Luna fugge per venire a studiare in Italia e per fuggire da un paese che l’ha cresciuta ma, ormai, minaccia costantemente di ucciderla perché è giovane, donna, universitaria, contraria al regime.

L’esperienza di Luna l’ha messa a stretto contatto con una delle realtà politiche più controverse degli ultimi cinquant’anni, sebbene l’Occidente vi rivolga lo sguardo solo in casi eclatanti. Pur definendosi «più sociale che politica» e «femminista ma soprattutto umanista», il suo vissuto di donna iraniana offre spunti di riflessione tanto sulla situazione che vive il suo paese quanto sullo stato dell’arte del femminismo italiano.
In Iran la situazione è piuttosto semplice da tracciare, almeno nei suoi tratti essenziali: la popolazione femminile ha deciso di dire basta a una cultura abusante e imprigionante. La morte di Amini è stata la miccia simbolica che ha riacceso una tensione latente fin dal 2009, se non da prima. Prima le giovani donne, poi le loro madri, poi persino molti loro fratelli, padri e mariti, si sono schierati contro un regime violento e che sta adottando la strategia dello sfinimento. Gli e le iraniane si trovano senza acqua, senza internet, con un sempre più difficoltoso accesso all’istruzione ed in uno stato di costante timore per la propria incolumità personale; eppure hanno scelto di scendere in strada ed affrontare frontalmente l’oppressore. “Donna, vita, libertà” è il noto slogan (di origine in realtà kurda) che riassume le istanze delle manifestanti.

La vicenda iraniana chiama in causa un Occidente che, finora, sembra aver fatto ben poco, se è vero che nessuno dei grandi paesi europei si è impegnato direttamente nel contrastare il regime né con sanzioni né con inviti alla democrazia e al riconoscimento dei diritti umani. D’altra parte, gli interessi in gioco sono troppi e sono gli stessi coinvolti in ogni conflitto: il mercato delle armi porta troppi soldi e il profitto resta l’unico vero decisore politico tanto negli Usa quanto nell’Ue.
Ciò che si può fare, comunque, è informare ed informarsi anche oltre l’evento eclatante; quando l’attenzione dei grandi canali d’informazione cala, non è quasi mai perché la violenza è cessata.
D’altro canto, però, il vissuto traumatico delle donne iraniane fa anche da specchio deformante che mette in luce le potenzialità oppressive di un sistema patriarcale che, anche se sfrondato tanto sul piano teologico (ma solo per la professione di laicità) che su quello politico (nonostante le fragilità della democrazia), si ripropone e prolifera anche in Europa. A questo proposito, interessanti sono stati gli spunti di Mariateresa Lietti e, dal pubblico, Celeste Grossi, che hanno sottolineato come sia necessario per le donne occidentali e italiane nello specifico prendere coscienza della diffusione del controllo sul corpo femminile. Questo comune giogo di normazione e repressione dovrebbe accomunare le lotte al di là dei continenti, stabilendo dei legami prima di sorellanza e poi più in senso lato di umanità, di riconoscimento dell’alterità e disconoscimento della prevaricazione sistemica di genere.
Questa prospettiva di “far fronte comune”, richiamata peraltro anche da Luna nel raccontare come, dopo un iniziale momento di appoggio, ora gli uomini iraniani siano sempre più schierati a fianco delle donne in prima linea, ha trovato proprio nell’ospite una rilettura filtrata dalla sua cultura ma non per questo meno interessante. Confermando di preferire la dimensione sociale a quella strettamente tattico-politica, Luna ha infatti sottolineato come esista anche un versante positivo su cui possono convergere le donne a prescindere dalla loro nazionalità: il concetto stesso di femminilità o, acuendo leggermente un’analisi comunque emersa abbastanza chiaramente, il materno.
Certo, non si può pretendere che il retaggio teologico della cultura iraniana venga meno, ma ciò diventa elemento di interesse se messo al lavoro anche politicamente (d’altra parte, quanta della politica italiana è più o meno dichiaratamente cristiana quando non direttamente cattolica?). Definire il fronte comune dell’essere corpo oppresso è giusto e fondamentale ma apre ad implicazioni politiche ben difficili da definire. Non è un caso che al monito femminista di riconoscersi come vittime di un meccanismo analogo a quello che ha portato al presente iraniano qualcuna in sala abbia sottolineato che «la consapevolezza c’è, le proteste anche; è lo spazio mediatico che è poco». Come a dire, un po’ aporeticamente, «ci accorgiamo del patriarcato ma persino le nostre lotte ne sono vittime».
L’orizzonte del materno, della generatività e della femminilità e, per converso, del riconoscimento come “figli di madre” anche da parte degli uomini, ha una pregnanza del tutto diversa proprio perché dichiaratamente a-politico. Ma, da che mondo è mondo, non è facendo dichiarazione di apoliticità che si diventa apolitici. Non che il femminismo occidentale non sia arrivato a discutere questi temi, tutt’altro; ma la prospettiva in un certo senso “anarco-teologica”, la spinta contro le istituzioni in virtù di un riconoscimento umano come “figli della medesima assoluta divinità” è un punto di vista, per quanto ingenuo, quantomeno da riconsiderare.
D’altronde, come l’Occidente si pone al di fuori della cultura iraniana e ne giudica gli sviluppi storici, non c’è ragione per cui una persona iraniana in Italia non rilevi che le donne sono oggetto di normazione, controllo e repressione ben più di quanto troppo spesso, e il paradigma liberale gioca un ruolo centrale in questo, siano esse stesse disposte ad ammettere.

Il primo incontro organizzato da Intrecciat3, insomma, ha unito una testimonianza toccante a una riflessione che, lungi dall’essere conclusiva, ha però fatto vedere quanto il confronto culturale possa essere politicamente fertile. Luna ha risposto a molte domande e il pubblico, circa cinquanta persone, ha apprezzato molto sia il suo racconto che la sua capacità, coinvolta ma proprio per questo vera, di raccontare una tragedia e progettarne una soluzione ispirata alla metafisica ma già di fatto attuata da lei e dalle sue sorelle rimaste in Iran.
Come sempre (e soprattutto di questi tempi) nei movimenti rivoluzionari, c’è molto da riflettere e riconsiderare, ma l’urgenza di agire si fa sempre più stringente. Soprattutto se c’è un intero sistema culturale da sovvertire. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]

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